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Cresce il business dei token immobiliari
È possibile diventare titolari di un pezzetto di edificio? Oggi sì, almeno in teoria, grazie ai token immobiliari, che tuttavia potranno conoscere un vero e proprio decollo solo nel momento in cui saranno superate le differenze normative a livello di singoli Paesi.

Diventare proprietari di un pezzettino di palazzo a Milano, Roma, Londra o New York. È la possibilità offerta dai token immobiliari, un fenomeno in crescita anche se ancora caratterizzato da regole inadeguate.
Di cosa si tratta
Il token è simile alla quota azionaria di una società, come quelle che possiamo acquistare o vendere in borsa. La particolarità del primo consiste nel fatto che si tratta di uno strumento digitale, facile da trasferibile (con la sicurezza delle transazioni garantita dalla tecnologia che caratterizza le transazioni, la blockchain), così come da conservare.
Sul mercato esistono due tipologie di token immobiliari. La prima consente di acquistare parte del bene (come nell’esempio dell’edificio fatto all’inizio dell’articolo); la seconda è un asset di debito che digitalizza l’affitto raccolto per una proprietà e automatizza il processo di raccolta e scambio. Questo grazie agli smart contract, protocolli informatici che su una blockchain facilitano, verificano o fanno rispettare la negoziazione o l’esecuzione di un contratto.
Già oggi questi contratti consentono la trasformazione delle unità immobiliari in token, in modo da ottenere i proventi da vendita o locazione in misura proporzionale alle quote detenute da ogni proprietario.
L’aspetto normativo
Secondo uno studio realizzato da Natixis, i volumi attuali hanno già raggiunto tra i 15 e i 20 miliardi di dollari all'anno, mentre – guardando in prospettiva - LaSalle Investment Management stima che entro cinque anni il business potrebbe valere oltre 330 miliardi. Siamo, dunque, di fronte a un mercato in rapidissimo sviluppo, anche se non mancano i problemi. In un’analisi effettuata da Il Sole 24 Ore emerge che sul fronte normativo ogni Paese si muove in ordine sparso, anche all’interno dell’Unione Europea. E in Italia una disciplina ad hoc che rifletta una cultura trasversale tra legge, finanza e real estate ancora non c’è.
In cerca di uniformità
Due anni fa la Commissione europea ha proposto di modificare la definizione di “strumenti finanziari”, in modo da tenere in considerazione gli “strumenti emessi mediante una tecnologia di contabilità distribuita”. Di conseguenza, sottolinea il quotidiano finanziario, è diventato più chiaro che i token di sicurezza possono essere qualificati come valori mobiliari quando sono liberamente “negoziabili sul mercato dei capitali” e sono dotati di “diritti di profitto” simili a quelli associati a titoli più convenzionali.
Detto questo, resta sempre in capo al singolo Paese la responsabilità se procedere alla classificazione vera e propria. Uno scenario che finisce per creare grande incertezza, dato che un mercato come questo non può che muoversi con una prospettiva globale e non certo limitata ai confini nazionali. In particolare va considerato che l’investimento negli immobili tokenizzati non è fatto direttamente sulla proprietà, ma su una società veicolo che possiede la proprietà e che potrebbe trovarsi in una giurisdizione diversa da quella in cui si trova fisicamente la proprietà. Una prospettiva che renderebbe complicato (in molti casi impossibile) trasformare i token in valuta reale. Una questione che andrà affrontata a livello di riunioni tra i governi nazionali per consentire davvero al settore di affermarsi su larga scala.
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